1.
Il rapporto tra genio e follia è un tema sul quale, a partire dall’800, sono state scritte molte pagine, che oscillano tra l’ipotesi romantica per cui la genialità si realizza sempre al confine della follia, ricadendo in questa con una frequenza inquietante, e l’ipotesi organicistica, secondo la quale un cervello geniale non è per ciò immunizzato dall’essere depositario di un’eredità genetica patologica, che, nonostante la genialità, segue il suo triste corso.
E’ ovvio il motivo per cui non mi riesce possibile accettare la seconda ipotesi. Gli psichiatri hanno una formazione scientifica così carente che riesce loro difficile cogliere, nella realtà che esplorano, alcuni indizi che compromettono la loro teoria. E’ un dato di fatto, acquisito storicamente, che, indipendentemente dalla circostanza per cui un individuo geniale sviluppa un disturbo psichico, la compresenza nello stesso gruppo familiare di un membro geniale e di uno o più membri malati di mente è a tal punto frequente da rendere impossibile il considerarla casuale. Anche se non è possibile, per ora, risolvere questo mistero, esso suggerisce che determinati corredi genetici affini contengano la duplice potenzialità di produrre prestazioni eccezionali e/o disturbi psichici. Dato che riesce piuttosto arduo interpretare la genialità come una difesa dalla foliia, l’ipotesi discendente dall’ipotesi è che la malattia mentale rappresenti, in parecchi casi, l’espressione disfunzionale di un corredo iperdotato.
Meno ovvio, forse, è il motivo per cui dissento anche dalla prima ipotesi. L’apparato mentale umano contiene intrinsecamente potenzialità squilibranti in nome della sua complessità e di un corredo emozionale indefinitamente ridondante. La genialità si fonda su di un’attitudine particolare ad utilizzare tali potenzialità esplorando gli universi simbolici che esse producono e oggettivando in forma di prodotto (artistico, scientifico, filosofico, ecc.) tali esplorazioni. Che un’esperienza del genere si realizzi al confine della follia mi sembra una banalità, non fosse altro perché non pochi geni (tra cui mi verrebbe su due piedi di annoverare, per esempio, Bach, Monet, Borges e Einstein) hanno manifestato nel corso dell’intera loro esistenza un equilibrio psichico rilevante.
Il problema – penso – vada affrontato da un altro punto di vista.
Anzitutto occorre chiedersi se si dà un nesso ipotizzabile tra genialità e disturbi psichici. La risposta è positiva ma di ordine generale. La complessità dell’apparato mentale umano è tale che la sua dotazione, soprattutto a livello emozionale, anche media rappresenta una predisposizione a sviluppare disagi psichici. Laddove la dotazione è superiore alla media, il pericolo si incrementa.
Il perché è semplice. L’emozionalità è agganciata ai bisogni intrinseci, che sono sempre e comunque in tensione tra loro, e la cui scissione, dovuta a circostanze di interazione con l’ambiente, rappresenta la matrice di un conflitto psicodinamico. E’ evidente che più il corredo emozionale è ricco, più la possibilità che si origini a livello inconscio un conflitto è elevata.
Le circostanze che danno luogo ad una scissione dei bisogni non sono però mai legate a problematiche filosofiche, religiose, scientifiche, esistenziali, ecc. Esse sono sempre riferite alle interazioni sociali: al rapporto tra io e Altro, dal rapporto interpersonale al rapporto con il mondo nella sua totalità.
Laddove si origina un conflitto psicodinamico, le possibili evoluzioni sono molteplici. Molto dipende dalle circostanze che lo hanno originato e dagli strumenti di cui dispone il soggetto per elaborarlo. Tali strumenti hanno poco a che vedere con l’intelligenza: essi si fondano sulla comunicazione tra l’inconscio e la coscienza, che può essere bloccata anche in persone iperdotate. Molto dipende infine dalla strutturazione dell’incoscio e, in particolare, del Super-Io. Se questi infatti utilizza sistemi di valore particolarmente colpevolizzanti, il soggetto si ritrova a soffrire senza sapere perché.
Il nucleo conflittuale può essere anche banale e del tutto dissociato rispetto al resto della personalità. Il suo lavorio sotterraneo, però, può lentamente eroderla e al limite disgregarla.
La banalità dei conflitti psicopatologici è del tutto rilevante e, se anche la loro genesi fa capo ad un’iperdotazione emozionale, la loro dinamica non ha nulla a che vedere con la personalità globale, ma con la sua infrastruttura inconscia.
Questa lunga premessa serve ad introdurre una riflessione sulla parabola psichiatrica di G. Cantor, la cui genialità è ormai universalmente riconosciuta. In tale parabola, insorta intorno ai quarant’anni ed evoluta per crisi progressive sino alla morte sopravvenuta in una clinica psichiatrica, è facilmente individuabile un paradosso che ha giocato un ruolo importante in tale evoluzione.
L’esperienza di Cantor è particolarmente importante perché l’oggetto cui ha dedicato le sue ricerche matematiche – l’Infinito – è di quelli che più si prestano ad avallare lo stereotipo per cui il genio crolla sotto il peso dello sforzo, della tensione e dell’emozione che la mente esercita inseguendo nuclei di verità e oggettivandoli.
In realtà, l’Infinito c’entra con la patologia di Cantor, ma per motivi che prescindono del tutto dalla squilibrante vertigine che coglie qualunque uomo la cui mente si apre al confronto con esso.
Perché il discorso riesca comprensibile, devo ovviamente fornire qualche dato sulla biografia e sull’attività intellettuale di Cantor. Mi astengo ovviamente dall’entrare nel merito delle sue ricerche matematiche, rimandando il lettore interessato ad un’appendice compilata con vario materiale tratto da testi e da Internet, che aggiungerò all'articolo ulteriormente.
2.
G. Cantor nasce nel 1845 da un’agiata famiglia di commercianti, originaria di Pietroburgo, ma trasferitasi in Germania, nella quale non difettano alcuni membri collaterali dediti alla musica e all’arte. La madre stessa era stata una valida musicista prima di dedicarsi alla cura della casa e dei figli (in tutto sei).
Cantor manifesta fin da piccolo una spiccata sensibilità e attitudine intellettuale. Aderisce fervidamente all’insegnamento religioso del padre, che ha una fede cattolica. Frequenta la scuola con ottimo profitto e, sotto la guida della madre, si dedica alla musica con una serietà che sembra far presagire una carriera da musicista. Nel corso dell’adolescenza, lo studio delle scienze, però, soprattutto della matematica, lo affascina al punto da spingerlo a cambiare progetto.
Dopo aver conseguito il diploma con voti eccellenti, va a studiare matematica al Politecnico di Zurigo e poi all’Università di Berlino, che, all’epoca, gode di un enorme prestigio. Qui incontra, tra gli altri, Leopold Kronecker, il rapporto con il quale inciderà in maniera determinante nella sua carriera e nella sua vita.
Conseguiti la laurea e il dottorato, Cantor va ad insegnare all’Università di Halle, ritenuta tradizionalmente il trampolino di lancio degli scienziati verso Gottinga o Berlino. Colà, Cantor conduce una vita tranquilla, si sposa e porta avanti le sue ricerche che, dalla teoria dei numeri, lo hanno portato ad affrontare il problema dell’infinito matematico. Sono proprio queste ricerche che determinano un aspro conflitto con Kronecker, che, facendo parte dell’Accademia di Berlino, ha un grande prestigio.
Kronecker, ebreo convertitosi al Cristianesimo, è un valido matematico che, nel corso della sua vita, darà validi contributi alla teoria dei numeri. E’, però, un finitista, vale a dire ritiene che della matematica debbano fare parte solo quelle deduzioni che possono essere effettuate in un numero finito di passi a cominciare dai numeri naturali. L’ideologia finitista è seintetizzata in un celebre aforisma che Kronecker pronuncia nel corso di una conferenza: “Dio ha creato i numeri naturali; tutto il resto è opera dell’uomo.”
Il finitismo non è, comunque, all’epoca un orientamento maggioritario. Gran parte dei matematici, oltre che a disinteressarsi del problema, sono fermi alla lezione di Gauss, secondo il quale l’infinito è solo un modo di dire in cui si parla in realtà dei limiti a cui certi rapporti possono avvicinarsi quanto si vuole, mentre altri possono crescere senza limiti.
Il problema è che le ricerche portano Cantor a sostenere che gli infiniti matematici sono attuali, e non potenziali come si riteneva, sono anche di differenti dimensioni e che esiste tra essi una gerarchia ascendente senza limiti, sicché non ne esiste uno più grande di tutti che li possa contenere.
Affermazioni del genere, all’epoca erano troppo originali per essere immediatamente accolte, ma alle orecchie di Kronecker suonano come eretiche. Egli liquida le ricerche di Cantor definendole pure e semplici fandonie. Non si limita, però, ad esprimere giudizi del genere, si impegna a boicottare in ogni modo la carriera di Cantor. Ostacola la pubblicazione dei suoi lavori sulle Riviste e boicotta la sua partecipazione a Concorsi per cattedre in altre Università, obbligandolo a rimanere ad Halle, un piccolo ateneo privo di qualsiasi reputazione nel campo della matematica.
Cantor riesce ad aggirare l’ostacolo posto alla pubblicazione, ma ciò non fa altro che inasprire Kronecker. Il punto massimo del conflitto viene raggiunto nel 1883, allorché Cantor scrive direttamente al Ministero dell’Istruzione avanzando domanda per una cattedra che si sarebbe liberata a Berlino. Egli sa che l’iniziativa è vana e che può aspettarsi solo una rappresaglia. il suo intento è evidentemente quello di coinvolgere i matematici in una franca discussione delle sue teorie e delle critiche ad esse ricolte da Kronecker. Questi reagisce furibondo minacciando di pubblicare un articolo nel quale intende dimostrare che le ricerche di Cantor non hanno valore alcuno.
La cosa non avrà seguito. Timoroso del conflitto, Cantor scrive più volte a Kronecker tentando una riconciliazione. Questi risponde in tono sereno. Il problema è che il conflitto non è di ordine personale, ma ideologico. Cantor prende atto che non raggiungerà mai una cattedra adeguata al suo valore, e che le sue ricerche impiegheranno molto tempo ad essere riconosciute come valide e innovative.
Le conseguenze della frustrazione sono due. La prima è che Cantor va incontro nel 1884 ad un grave episodio depressivo, che si esaurisce in un mese ma si ripeterà periodicamente dando luogo a molteplici ricoveri nella clinica di Halle ove egli muore nel 1918. La seconda è che, se non decide di chiudere con la matematica, chiude con il mondo dei matematici, e comincia ad intraprendere studi di storia e di teologia. dal 1885 in poi egli intrattiene una fitta corrispondenza con teologi e studiosi. la sua fede si ravviva fino al punto che egli si convince che le sue scoperte dimostrano l’esistenza di Dio – Essere infinito per eccellenza – e che esse sono state ispirate da Dio.
Egli trova ascolto presso un teologo neotomista all’epoca influente – Constantin Gutberlet – che, nei suoi scritti, sottolinea l’importanza teologica dell’opera di Cantor. Questa ed altre conferme provenienti dal mondo cattolico, orientano Cantor in una direzione mistica. Egli scrive:
“Ora ringrazio Dio, infinitamente saggio e buono, di avermi sempre negato la realizzazione di questo desiderio [di una cattedra a Berlino], perché con ciò mi ha costretto, tramite una più profonda penetrazione nella teologia, a servire Lui e la sua Santa Romana Chiesa Cattolica meglio di quanto non sia riuscito a fare con la mia esclusiva preoccupazione per la matematica.”
“La mia teoria resiste salda come una roccia; ogni freccia indirizzata contro di essa ritornerà immediatamente a chi l’ha scagliata. Come faccio a saperlo? Lo so perché l’ho studiata per molti anni sotto tutti gli aspetti; perché ho esaminato tutte le obiezioni che mai siano state sollevate contro i numeri infiniti: e soprattutto perché ne ho risalito le radici, per così dire, fino alla causa prima infallibile di tutte le cose create.”
L’adesione alla religione non porta la pace nel cuore di Cantor. Nel 1891 muore Kronecker, il suo acerrimo nemico e di fatto “persecutore”. Nonostante il rarefarsi delle file dei finitisti e una progressiva accettazione delle sue teorie da parte di altri matematici, le crisi depressive si ripetono e determinano lunghi periodi di ricovero: 1899, 1902, 1904-05, 1907-08, 1911-12. L’ultimo avviene l’11 maggio 1917. Cantor muore in clinica il 6 gennaio 1918.
3.
Presumo che qualcuno, come sempre accade con i geni affetti da malattia mentale, abbia fatto delle ricerche a riguardo, consultando gli archivi della clinica, analizzando l’epistolario, ecc. Purtroppo non sono riuscito a trovare alcun riferimento a pubblicazioni del genere.
Mi sembra però che non ce ne sia bisogno. Solo gli psichiatri pensano che la depressione sia un male oscuro. Lo è per chi la vive, non dovrebbe esserlo per chi è chiamato ad interpretarla.
L’esperienza di Cantor, poi, ha una trasparenza singolare.
Si tratta indubbiamente di un soggetto introverso iperdotato sia da un punto di vita emozionale che intellettivo. Non è un caso che la sua scelta di vita oscilla per qualche tempo tra la musica e la matematica.
Riceve dal padre un’educazione cattolica profonda ma anche rigida.
Non è ambizioso. E’ un ricercatore serio che scopre, ad un certo punto della sua vita, un campo da esplorare – quello dell’Infinito matematico - che lo irretisce. In conseguenza di questo egli viene perseguitato da Kronecker. La persecuzione è reale. Kronecker è in buona fede: egli ritiene che ammettere l’esistenza di un infinito attuale o, peggio ancora, di più infiniti, porti nel campo della matematica un disordine che ne minaccia la struttura. Fa di tutto per confinare Cantor nell’esilio di Halle e per impedire che le sue ricerche si diffondano. Dall’alto del suo prestigio, le giudica sprezzantemente come fandonie.
E’ evidente che una situazione del genere realizza in Cantor una situazione di stress. Per quanto intimamente convinto della fondatezza dei risultati raggiunti, egli, come tutti i ricercatori, ha bisogno di conferme da parte della corporazione cui appartiene. Non ne ottiene. Da Kronecker viene anzi aspramente disconfermato.
C’è da chiedersi che cosa può essere accaduto nella mente di Cantor “perseguitato” ad personam. Dalle sue lettere traspare la delusione, la frustrazione, l’indignazione, il risentimento. In una di esse, nella quale anticipa la reazione di Kronecker al suo essersi rivolto direttamente al Ministero, Cantor fornisce un accesso allo scenario inconscio. Egli scrive infatti: “Sapevo con precisione [...] che Kronecker sarebbe scattato come se fosse stato punto da uno scorpione, e con le sue truppe di riserva avrebbe sollevato un baccano tale che Berlino avrebbe creduto di essere stata trasportata nei deserti sabbiosi dell’Africa, con i suoi leoni, tigri e iene.”
Cantor sottolinea la suscettibilità di Kronecker, ma l’identificazione con lo scorpione – il cui morso è fatale – attesta che egli di fatto, a livello inconscio, è avvelenato dalla rabbia, ed evoca in conseguenza di questo rappresaglie “selvagge”.
Una rabbia cieca, in circostanze del genere, si può ritenere psicologicamente comprensibile, anche se essa attesta una difficoltà da parte di Cantor di tenere conto della buona fede di Kronecker, che intendeva solo difendere l’edificio della matematica da un attacco ritenuto demolitivo. Rabbia cieca sicuramente riconducibile ad una fantasia di eliminazione del “persecutore”. Il problema è che, in conseguenza dell’educazione cattolica e della strutturazione superegoica, Cantor non è in grado né di prender coscienza dell’entità della sua rabbia né di sfuggire ai sensi di colpa.
La genesi della depressione è, dunque, del tutto evidente. Cantor comincia a stare male perché, inconsciamente, deve pagare la colpa di aver desiderato la morte di Kronecker.
Si tratta, come noto, di un “automatismo” dinamico che nei soggetti sensibili e introversi si attiva con estrema facilità. Tale automatismo è già pericoloso nei soggetti che hanno una visione della vita laica; in quelli religiosi, assume una particolare severità perché esso fa riferimento alla legge suprema dell’amore e del perdono.
Nonostante la sua genialità, Cantor non può sfuggire a tale automatismo. Forse, in cuor suo, si è proposto più volte di accettare la volontà di Dio, ma i suoi propositi sono venuti ad urtare con il fatto che gli attacchi di Kronecker sono continuati, alimentando la rabbia.
Anche se un soggetto non si rende pienamente conto di ciò che accade nel suo mondo interiore, una situazione di conflitto che determina un disagio psichico dà luogo sempre alla messa in atto di strategie che tendono a risolvere il conflitto stesso. Il problema è che, in difetto di consapevolezza sulla struttura del conflitto, le strategie che vengono adottate sono spesso rimedi peggiori del male.
Cantor, infatti, ha tentato di affrancarsi dal disagio abbandonando la matematica e alimentando la sua fede religiosa, fino al punto di ritenere che le sue ricerche fossero ispirate da Dio e ricolte a dimostrare la sua esistenza ontologica in quanto unico Essere Infinito che contiene tutti gli infiniti possibili.
Questa soluzione, naturalmente, non ha fatto altro che incrementare i sensi di colpa. Era prevedibile che la morte reale di Kronecker inducesse un peggioramento, perché essa, nell’inconscio di Cantor, deve essere stata vissuta come una realizzazione dei suoi inconsci desideri. Non sorprende, dunque, che, dopo quella morte, sopravvenuta nel 1891, la depressione di Cantor si sia presentata più volte e in forma sempre più grave.
Non sorprende neppure che ciò sia accaduto nonostante, negli ultimi anni, egli abbia sviluppato una religiosità mistica. L’unione di Cantor con l’Infinito assoluto (Dio) non lo ha salvaguardato dagli infiniti sensi di colpa prodotti dal Super-Io. Essa, anzi, deve averli esasperati, inducendo un circolo vizioso psicodinamico fatale, alimentato non già da una rabbia che, negli ultimi anni, sicuramente è scemata, ma dal ricordo di essa, che ha indotto nell’inconscio cantorino l’identificazione con lo scorpione, vale a dire con un essere pericoloso e distruttivo.
4.
La storia psichiatrica di Cantor conferma, a mio avviso, le considerazioni fatte all’inizio. Per quanto favoriti da un corredo emozionale iperdotato, i conflitti psicodinamici hanno poco a che vedere con la genialità. Essi si riconducono a leggi intrinseche all’apparato mentale umano piuttosto banali (la legge, per esempio, che vieta di desiderare la morte di un altro essere umano). La conseguenza dei conflitti dipende però non solo dalla sensibilità personale, ma anche dalla strutturazione culturale della coscienza e dell’inconscio. Se, in rapporto ad una rabbia cieca e in qualche misura giustificata, il Super-Io produce sensi di colpa, la connivenza dell’Io cosciente con i presupposti culturali da cui muove il verdetto superegoico può risultare disastrosa, vale a dire concorrere ad alimentare un circolo vizioso psicodinamico destinato a riverberare all’infinito.
Un circolo vizioso del genere funziona, né più né meno, come un granellino di sabbia che può bloccare o rendere malfunzionante un congegno straordinario.
La banalità del conflitto psicodinamico e le sue conseguenze, che sono spesso disastrose, possono, insomma, essere interpretate prescindendo sia da ogni “romanticismo” sia dallo sterile riduzionismo organicistico.
I geni insomma ammalano non perché sono tali, ma perché sono semplicemente umani, troppo umani...